Torte e gelosia


Rincaso e tolgo subito corrente al quadro elettrico, ansioso di appurare se i gemiti che promanano dal mio talamo vengano per caso dall’apparecchio televisivo, o se si tratti invece di mia moglie.
Ma i guaiti persistono anche al buio…
Dovete sapere che soffro di un male cardiaco incurabile. Mi è stato assicurato da una ventina di dottori – agenti indipendentemente l’uno dall’altro – che la mia vita durerà poco.
Anche il lettore più cinico dovrebbe riconoscere il mio stato d’infelicità, qui a Pozzuoli.
Vi confesso che non ho mai provato vero amore (ma vera gelosia sì) per l’instabile donnetta che mi sta tradendo al piano di sopra. A suo tempo la scelsi e la corteggiai con calcolata cura soltanto per prepararla al ruolo che doveva svolgere, il succo del quale – come le avevo rivelato poco dopo il matrimonio – era rendersi complice del mio suicidio, operazione che – per una sorta di codarda inettitudine – non sarei mai riuscito a compiere da solo.
Così le cose furono predisposte e la data fissata per il giorno del mio quarantatreesimo compleanno.
Oggi, il giorno fatidico, sono rincasato prima del solito per l’ingenua trovata di celebrare trapasso e ricorrenza con torta e candeline.
Salgo le scale, deciso a dirgliene due a quella sgualdrina.
Busso.
Mi apre un bellimbusto che indossa la mia veste da camera.
Opto per il sarcasmo:
“Posso offrirvi una piccola fetta di torta prima di andarmene?

Nessuna risposta.
“Ho chiesto se posso offrirvi un piccolo rinfresco, prima di andarmene…”

Il bellimbusto non aveva mai sentito niente di più assurdo: il cornuto che ci offre il rinfresco prima di andare! Il rinfresco prima di andare!
E dalla sua espressione capisco che pensa che ero semmai io ad aver avuto bisogno d’un goccetto – ma magari prima di rincasare.
Mia moglie nota che non ho in mano solo la torta, ma nell’oscurità non riesce a distinguere altro.
“Cos’hai lì?” Mi chiede.
“La pistola e le pallottole … Prima le signore!”
E faccio fuoco.
I due condividono una breve agonia contrattiva, simili a un par di marionette comandate dallo stesso filo.
Io mangio un pezzo di torta e al posto del caffè m’infilo in bocca la pistola.
Premo il grilletto, ma ne esce un sordo clic.
Un’espressione corrugata mi si diffonde sopra la cianosi.
Quella sgualdrina, anche con un proiettile in corpo, anche rantolando, ricomincia a baciare il suo ganzo proprio lì sotto ai miei occhi…
La gelosia mi stava fermando il cuore… Il mio cuore si ferma. Riprende a battere, si ferma di nuovo, si rimette in moto… Le sparo un altro colpo.
Avevamo deciso che io morissi d’infarto, e mia moglie doveva prepararmi qualcosa che me lo facesse venire, l’infarto, e aveva optato per quella messinscena perché sapeva che soffrivo di gelosia a livelli patologici.
Ora sono in galera. Il mio cuore è sempre più malato. Qui ho molto tempo per pensare, e un terribile dubbio s’è insinuato in me e non mi lascia più: mi sto convincendo sempre più che

quella notte sia stata mia moglie a scegliere me come complice del suo suicidio.
Forse a suo tempo aveva risposto ai miei corteggiamenti con calcolata cura solo per prepararmi al ruolo che avrei dovuto
svolgere nella sua vita: il succo del quale era rendermi complice del suo suicidio, operazione che – per una sorta di
codarda inettitudine – non sarebbe mai riuscita a compiere da sola.

La legge di Chuck Mangione


Ciò che stimola una categoria di eventi
a reclamare il rango di legge.
è il ripetersi dello stesso effetto
quando ricorrono le stesse cause


A notte fonda e alla terza ora d’un concerto gratuito tenuto dal musicista Chuck
Mangione, lanciandosi un’occhiata, cinque amici si domandano perché – annoiati e
sfiniti – rimangano lo stesso ad assistere allo spettacolo, senza che nessuno di loro
riesca a prendere la sacrosanta iniziativa di sottrarsi alla forza di gravità che li tiene
ancorati lì.
Veniamo invitati a una festa dove offrono un rinfresco; abbiamo appena cenato e ci
rendiamo conto che aggiungere allo stomaco qualcos’altro – oltre a ciò che già vi
risiede – è un oltraggio all’intelligenza alimentare; tuttavia, un canapè particolarmente
scenografico e gratuito non si esimerà dal farsi assaggiare.

Perché?
Perché siamo disordinatamente attratti da tutto ciò che abita gli scaffali del gratuito e,
se si presenta l’occasione, ci riempiamo le tasche di inutili dépliant, cataloghi e
opuscoli, rapiti dalla tonificante sensazione di ottenere qualcosa in cambio di nulla.
I nostri biglietti omaggio e le nostre tessere a riduzione vogliono accasarsi anche
quando il titolare è indisposto. Un martire sarà reclutato per andare a riempire con un
sedere la sedia già pagata, e sorbirà l’amaro sciroppo della partita, o dello spettacolo
teatrale, fino all’unica goccia dolce, l’ultima.
Semplice:
Noi obbediamo alla ‘Legge di Chuck Mangione’, cioè a “quella spinta che ci porta a
consumare con caparbia inerzia un bene, qualora esso sia offerto, gratuito o già
pagato, e a tollerare con disinvoltura gli aspetti fastidiosi che tale consumo può
comportare, soltanto perché ne sono già stati assolti i costi”.
È curiosa la caparbia inerzia con la quale tentiamo di sfruttare fino in fondo qualcosa
di già pagato, o di gratuito, anche se non ci piace più, anche se c’è venuto a noia.
Le persone che sono particolarmente sensibili a questa legge psicologica dovrebbero
poter usufruire di un programma speciale di protezione che preveda: a)
trasferimento in luoghi protetti privi di attrazioni gratis; b) misure di vigilanza e di
tutela da eseguire a cura degli organi di polizia psichiatrica territorialmente competenti.
Per prima cosa bisognerebbe cercare di capire se la caparbia inerzia con la quale
consumiamo, o ci facciamo consumare, da un bene acquistato differisca dalla
caparbia inerzia con la quale rimaniamo aggrappati a beni ricevuti in dono.
A prima vista non sembrerebbe esserci differenza. Sia che abbiamo comprato un
maglione, sia che ce ne abbiano regalato uno, non lo butteremo via a cuor
leggero anche se non ci piace più o c’è venuto a noia.
La LDCM Confina nella sindrome dell’abbandono. E soprattutto nella FOMO.
Da bambino se sentivo i miei amici giocare in cortile e non potevo per qualche

motivo raggiungerli, stavo male.
Anche adesso, se perdo un minuto di una trasmissione che m’interessa, sto male (e il fatto di poterla registrare o mettere in pausa non è la stessa cosa).
Uscire dal cinema prima che finisca il film è difficilissimo. E se poi dovessi perdermi
qualcosa?
Anche quando saluto, indugio.

Ma la conseguenza più clamorosa della LDCM è la sindrome da accumulo compulsivo.

gli oppressi e la sinistra

Chissà perché l’offerta della sinistra massimalista non riesce a soddisfare la domanda politica degli oppressi? Mi risponderete: ‘gli oppressi non votano “Sinistra Italiana” e “Possibile” o quelle formazioni lì perché la loro domanda politica viene intercettata e assorbita dai movimenti populisti’. Ok. Quindi questo significa che gli oppressi, oltre ad essere oppressi, sono anche scemi? O è più probabile che ci sia qualcosa, nell’offerta dell’ultrasinistra, che non li convince del tutto? Siamo alla fine del 2016 e questa sinistra perdente ancora sta guardando il mondo col monocolo a caramella; ne ha perso la chiave di lettura ed è rimasta chiusa fuori dalla porta della storia, smarrita in un delirio autoreferenziale, dissolta in orizzonti lontani, che però riservano incontri vicini, come Casa Pound, Brunetta, Salvini, Gasparri. Ma anche D’Alema e Trump. Fa ostruzione alla riforma costituzionale perché è l’unico modo che ha per continuare a coltivare l’ambizione di lucrare uno spazio politico che le permetta di proseguire nella meritoria opera di tirare a campare sulla nostalgica riproposizione di schemi frusti e obsoleti. Infatti, mentre le vecchie culture politiche si sfaldano e collassano, questi mesti e lamentosi maestri di boria sgominati dal Tempo, continuano imperterriti con le loro sorpassate tiritere, partorite dalle loro sinapsi leniniste, acide e irrancidite. E più accumulano sconfitte, più diventano bavosi, tracotanti, sentenziosi, marginali, insignificanti, ininfluenti, inutili, nulli. Autolesionisti fino al midollo, falliti incalliti, sono totalmente privi della capacità di indicare i modelli funzionanti di ciò che teorizzano, e stentano a capire che il mondo è cambiato. Non si rendono conto che non si possono affrontare i disagi affidandosi a categorie vuote e manichee. Che nessuna complessità è riducibile a risposte soltanto “di sinistra”. Ma alla “sinistra che più a sinistra non si può” questo non entra nel cervello. Abbarbicata a un nome, a un’ideologia, la sinistra presuntuosa si consuma senza accorgersene, mentre insiste a infilare, con il calzascarpe, il mondo nel suo vecchio schema: un mito arcaico morto e sepolto da un pezzo, che ormai sopravvive solo in bocca a piccole aristocrazie autoriferite. Renzi – che almeno prova a fare qualcosa – è molto più ‘a sinistra’ di loro. Lui almeno cerca di dare risposte, cerca di dare speranze; loro sanno solo rimanere rinserrati in una sterile torre d’avorio intellettuale, senza confrontarsi con i fatti, limitandosi a criticarli. Per loro la colpa è sempre degli altri. Nella loro solfa i problemi sono sempre originati da chi non è abbastanza di sinistra. Poveri patetici allocchi falliti e perdenti. È un peccato vedere persone – spesso intelligenti e in buona fede – sprecare così il loro fiato, il loro tempo, la loro passione. D’altra parte non hanno mai ceduto di un millimetro all’evidenza di essere nel torto. Sopraffatti dalla loro vanità colossale e anacronistica, paralizzati nel loro mondo autoconsolatorio, preferiscono farsi strumento della destra piuttosto che iniziare a ragionare. Il 5 dicembre avranno i loro cinque minuti di gloria, dopodiché la peggior destra populista – senza nemmeno degnarli d’un piccolo grazie – li relegherà di nuovo al solo luogo che compete loro, quello che da sempre si sono scelti e che da sempre si meritano: i margini della storia.

pugni

Un concorso di idee

Una volta resosi conto che le soluzioni tradizionali non erano state in grado di scalfire d’un millimetro il terrorismo – anzi, avevano peggiorato le cose – l’occidente laico e cristiano decise di rimboccarsi le maniche per cercare un’alternativa. Venne così istituita una Commissione di Saggi, la quale stabilì che per affrontare l’ondata crescente di aspiranti suicidi, smaniosi di diventare martiri, sparsi dappertutto e sponsorizzati da un’organizzazione ricca e seducente – occorreva in primo luogo armarsi di fantasia piuttosto che di cattiveria, e a tal scopo bandì un concorso d’idee per sconfiggere il terrorismo.

Riporto di seguito i progetti che ottennero il punteggio migliore.

Il primo premio fu assegnato al concept “La Carota e il Bastone”, un programma che prevedeva come carota il ritiro immediato delle truppe da Medio Oriente, Libia e Afghanistan; se i terroristi ci stavano colpendo per reazione, si sarebbero ritirati anche loro; se non l’avessero fatto, significava che il loro obiettivo era la sopraffazione, e a quel punto interveniva il bastone, cioè una non meglio specificata fase di cattivismo illimitato e distruttivo.

Il progetto arrivato al secondo posto si chiamava “Morte sei bella, vita fai schifo”, e provo a illustrarne il contenuto: in sostanza pure noi “occidentali” avremmo dovuto dotarci – anche se non veniva spiegato bene come – d’un certo disprezzo per la vita; l’ideale era cercare di immedesimarci costantemente in una scena de “Il Cacciatore”, quella nella quale Robert De Niro convince John Savage a premere il grilletto senza pensarci troppo su. Tanto, belli o brutti, prima o poi dobbiamo morire tutti, e non è detto che morire all’improvviso sia molto peggio che morire vecchi, dementi, intubati e ricoverati alla ASL. Tra l’altro i governi occidentali ci avrebbero sicuramente autorizzati a girare con una pastiglia di cianuro in tasca, gadget da mostrare con orgoglio ad amici e utile da ingerire in caso di attacco terroristico “lento”, vale a dire quello che prevede mutilazioni progressive.

Terzo si era classificato il progetto “Diamogliela Vinta”, che prevedeva di islamizzarci anche noi, indossare hijab, kefiah e niqab, imparare a memoria il Corano, e persino praticarlo. Sarebbe servito a salvare la pelle – benché a scapito di altri organi importanti, quali il cervello.

Prima di procedere a stilare la graduatoria finale, il Presidente della Giuria aveva chiesto di poter conferire una particolare menzione anche alle due idee più originali. La prima era quella che prevedeva di screditare Allah mediante reclutamento d’un numero esorbitante di falsi imam compiacenti, che andavano sguinzagliati per tutto l’occidente col compito d’insinuare il tarlo del dubbio nei fedeli. La seconda prevedeva invece di assoldare occidentali tanto sciocchi da accettare, in cambio d’una retribuzione, di rendere pan per focaccia ai terroristi con attentati suicidi simmetrici in risposta a quelli che si verificavano – tanto per disorientare un po’ la controparte e aumentare il Q.I. medio del mondo.

 

Appunti di psicanalisi

Del disagio psichico si fanno carico sia la psicanalisi, sia le psicoterapie.

Fra le due pratiche, però, c’è molta differenza.
Lo psicoterapeuta crede che si possa intervenire con il senso a puntellare l’identificazione del soggetto. Insomma: quando il soggetto è dilaniato dal sintomo, il terapeuta si autorizza a essere colui che ha le chiavi dell’interpretazione, e spaccia quindi come senso universale il particolare taglio che dà lui alle cose. Operazione che in certi casi può anche procurare un sollievo immediato, benché effimero.

La psicanalisi, invece, evita accuratamente d’imboccare la strada del senso, perché è una strada che non finisce mai: si potrà sempre aggiungere altro senso al senso. Il senso è un oceano, e prima o poi i sintomi torneranno a galla.

Lo psicoterapeuta utilizza dosi massicce di suggestione: deve far passare il messaggio che il padrone del senso è lui.

Mentre la psicoterapia lavora sul senso, la psicanalisi lavora sul godimento. Lo psicanalista si limita, cioè, a far capire che il sintomo è il godimento (seppur infernale) del soggetto. Meglio ancora: che il sintomo rappresenta l’unico strumento in dotazione al soggetto per recuperare il godimento (se vi è oscuro il concetto di godimento, provate a pensare alla simbiosi figlio-mamma da quando siamo nel grembo fino a quando cominciamo a parlare). Quando cominciamo a parlare il godimento è andato perduto, ma nella perdita qualcosa viene recuperato: il sintomo, appunto. Ciò che appare disfunzionale – il sintomo – è invece funzionale a colmare la perdita. La psicanalisi, dunque, non aggiunge senso al senso, ma cerca la causa del senso. Cominciando a parlare, il godimento si perde – qualcosa si pietrifica – e il sintomo, stampatevelo nella mente, non è altro che il nostro tentativo di recuperare quel godimento perduto.

 

L’analista dice: bisogna che sia tu a parlare, perché io non sono il padrone del sapere. Il tuo sintomo non riguarda tutto il mondo. Riguarda solo te. Non c’è un prontuario dei sintomi. Il sintomo riguarda soltanto chi ce l’ha e non ci sono due sintomi uguali in tutto il mondo. Lo psicanalista agisce per ridurre il senso, per farlo decantare, per depurarlo. Per portarlo all’osso. Per ridimensionare la mitologia familiare del nevrotico. Tutta quella montagna di ‘mamma-papà’ va raffinata, colata, filtrata. Bisogna arrivare allo scheletro. Lo psicanalista agisce sulla base di una svista proficua: il transfert. Il transfert è un appello al sapere supposto: si suppone che l’analista sia in grado di arginare la frattura che si è creata nella vita del soggetto. L’analista, però, a differenza del terapeuta, su questo piano non risponde, ma opera prestando la sua immagine a rappresentare ciò che per il soggetto non è rappresentabile, cioè l’oggetto pulsionale, ovvero quel famoso scarto della pietrificazione, il prodotto residuale, il sintomo, il tentativo di recupero di quel godimento di cui il soggetto non sa nulla proprio perché non è dell’ordine del linguaggio, proprio perché è fuori dal senso. Il soggetto chiede di sapere e l’analista gli sorregge un simulacro: il fantasma. Non ce l’ha già pronto in tasca, però. Sorregge l’irrappresentabile. Questo punto d’intimità profonda con il paziente è una svista voluta. Una svista che fa intravedere l’oggetto pulsionale. L’analista è un jolly che presta la sua immagine a una funzione. Misura tutti i suoi comportamenti affinché riaffiori l’oggetto che ha a che fare col sintomo del soggetto.

Durante l’analisi però si parla. (O si tace. Non si fa altro).

 

Cosa c’entra dunque la parola con il godimento?
Un analizzante, nel momento in cui parla, capisce che quel che ha in mente di dire non riesce a dirlo così bene come pensava, si accorge che la parola è inadeguata. Scopre che la parola non è la cosa, ma una sua rappresentazione. Sconta una perdita di godimento. Parlando ci si accorge che non riusciamo a dire le cose nel modo perfetto in cui ce le rigiriamo in testa. Che saremo sempre condannati dal linguaggio a essere “un po’ a lato”. Chi parla sa che va incontro a delle incognite. Sa che dirà altro. Assume rischio e perdita. [P.S.: Diffidate di chi tace, perché chi tace molto spesso si suppone perfetto]. Il parlare, in analisi, è una specie di godimento aggiunto. Capita dunque un paradosso: il soggetto arriva con un sintomo, gode a parlarne, e aggiunge al suo sintomo un altro sintomo: la loquacità.

Occorre far cadere questo godimento aggiunto per arrivare alla causa e terminare l’analisi. Di questo l’analista dev’essere consapevole.

Ma se nella psicoterapia e nella psicanalisi si fa la stessa cosa, cioè “non si fa altro che parlare”, non è che le due pratiche, alla fine, sono la stessa cosa?

Niente affatto. È la funzione della parola a essere diversa, e questo lo decidono analista e terapeuta, con il loro diverso tipo d’ascolto. Ma mentre il terapeuta ascolta sul piano del senso (“parlate e starete meglio”, dice la psicoterapia. La parola diluirebbe dunque il peso del trauma, a sentire il terapeuta), l’analista saprà modulare l’ascolto in tanti modi diversi per far risaltare il fatto che l’analizzante sta dicendo qualcosa che non aveva intenzione di dire. Ma è sempre l’analizzante stesso che lo deve capire. È sempre un ascolto su misura. È un ascolto che fa sì che l’analizzante, a poco a poco, scopra che lui credeva di parlare, ma che invece è parlato. Che le parole affiorano da un passato familiare, simbolico; che non sono parole a caso, ma una marca: parole che hanno marchiato il soggetto in una logica che però è estranea a ogni logica condivisa.

È opinione comune che la psicanalisi sia una specie di archeologia mirante a ricomporre i frammenti e a “recitare la vita” per arrivare al racconto perfetto della propria storia.

Non è affatto così.

Nell’interazione analizzante-analista si crea un campo di lavoro dove le cose non si disseppelliscono soltanto, ma assumono un nuovo valore per il soggetto. L’analista non è solo archeologo, produce anche del nuovo. Ciascun evento prende nuove significazioni. E’ un sapere in dissolvenza. Capace di prendere nuovi volti. Dissolvenza continua, ma non destinata a proiettarsi all’infinito. Arrivati alla causa, le cose si chiudono. Si deve arrivare al punto in cui l’inconscio dica perché il soggetto si è arrangiato in un certo modo con il suo sintomo.

E come ci si arriva?

Ciò che dice il soggetto gira sempre attorno a un punto di non senso. Quel che si chiarisce nella cura è che questo punto ha a che fare col godimento. E la cura mette sempre più all’angolo questo punto, mentre nello stesso tempo lavora per far decantare il senso. Questo punto di non senso va via via sempre più delineandosi, viene messo alle strette, viene cortocircuitato, finché emerge, come in un film giallo.

E questo è il punto d’arrivo (e di origine) della cura.

Quando si arriva a capire da dove il dire del soggetto prende senso, e da dove il senso prende godimento.

Un’altra differenza: le psicoterapie sono infinite, mentre la psicanalisi arriva a un punto finale.

Nelle psicoterapie gli effetti hanno le gambe corte. In certi casi può anche scatenarsi il peggio.

L’analisi, invece, è una via epistemica: non punta a effetti terapeutici, ma a sapere il perché – anche se gli effetti terapeutici sono comunque riscontrabili.

E che ne è del sintomo a fine cura?

Parlando, la frontiera simbolica si sposta, e il reale viene colonizzato dal simbolico. Il sintomo diventa qualcosa da rottamare, come D’Alema. Diventa obsoleto. Non funziona più, perché ormai ne abbiamo visto la causa. Il sintomo diventa il “sapere del sintomo”. Ma il sapere, si sa, cancella il godimento. Allora in quel varco nasce un nuovo spazio creativo e il soggetto dovrà inventarsi un altro involucro – possibilmente meno doloroso – per godere.

 

La famiglia Parmareggio

A parte che non sarebbe difficile scritturare tre abitanti di Parma per doppiare i topi – anche se i pubblicitari a quelle vette di sagacia non ci arriveranno mai.

A parte che i topi sono ricalcati pari pari da Stuart Little, il cui creatore, Rob Minkoff, potrebbe chiedere diverse forme di risarcimento.

A parte che Emiliano, Ersilia ed Enzino hanno vinto il “Premio Tv Moige”, ricevendo così un importante riconoscimento del fatto che si tratti d’uno spot orrendo.

A parte che insistere con le pantegane dopo il maxi sequestro d’un milione di euro di formaggio morso dai topi avvenuto a Parma nel 2008 è leggermente controcorrente.

A parte che se a Parma parlassero davvero così ci suicideremmo tutti in massa nel bunker e i parmigiani (e i reggiani) sarebbero i primi a frugarsi in tasca per cercare la pillola di cianuro.

A parte tutto questo, la cosa che davvero colpisce nello spot è che – nonostante la scuola si chiami “Giosuè Topucci” – lasciandoci cioè intendere che ci troviamo in un mondo di topi, l’esperto nutrizionista ha invece il nome di uomo vero ed esistente: il prof. Giorgio Donegani.

Essendo raffigurato come un  topo, Donegani si sarebbe dovuto chiamare con un “nome patria” tipo “Dietoloni” o “Cibofresco”, oppure, se si voleva proprio ricorrere all’effetto-antonomasia [che però richiede notorietà universale del referente da storpiare] “Dott. Giorgio Topegani” o “Dott. Ratto Donegani”.

Walt Disney il malvivente l’ha chiamato “Gambadilegno”, mica “Renato Vallanzasca”; e una banda di ladri l’ha chiamata “Banda Bassotti”, mica “Juventus”.

Solo i Simpson possono permettersi di infilare personaggi veri nei cartoni animati, ma lo fanno a due condizioni: loro sono umani, e i personaggi famosi.

Senza contare che la famiglia Parmareggio è l’ennesima angheria inflitta ai nostri amici animali!

È giunta l’ora di combattere alla radice le operazioni violente come questa che prendono in giro i nostri amici raffigurandoli in contesti a loro impropri! Diciamo un fermo basta alle bestie fittizie nella pubblicità!

Ce lo chiede l’Europa!

Senza contare che questo spot ha l’incredibile potere di scatenare pulsioni omicide nei confronti di tutti i mammiferi.

Poi fosse Walt Disney!

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Elio Fiorucci, the book that never was

Ho incontrato Elio Fiorucci alla Mondadori di Segrate nel 2012 perché avrei dovuto aiutarlo a scrivere la sua autobiografia. Poi ci siamo rivisti altre quattro volte (ho ancora tutte le registrazioni e le trascrizioni delle ore passate assieme). Alla fine però il libro non si è fatto perché la mia voce copriva un po’ troppo la sua: non ero riuscito a sottomettere del tutto la mia scrittura alla sua personalità e, nonostante le mie scremature, dal testo continuavano ad affiorare un’ironia e una malizia nelle quali giustamente lui non si riconosceva. Tutto questo nonostante fra noi si fosse creata una grande sintonia. Purtroppo l’operazione di neutralizzare il proprio stile non sempre riesce. Mi consolo sperando che forse significhi che ne hai uno.

Ecco un piccolissimo stralcio del libro che non fu mai scritto.

se Dio esistesse veramente

(…) Le religioni, quasi tutte, su di me hanno un effetto paradosso: mi fanno dubitare tutte dell’esistenza di Dio, e questo proprio a causa delle deformazioni e delle storture mentali tipiche di coloro che le praticano con più fervore. Le religioni sono piene di aberrazioni che mi fanno pensare: se Dio esistesse davvero fulminerebbe all’istante quelli che commettono atrocità in suo nome. Li brucerebbe senza scampo – o almeno sarebbe molto arrabbiato con loro, gli farebbe causa, gli chiederebbe i danni. In breve la mia idea è questa: il 6 agosto 1945 il Presidente Truman decide di sganciare un’atomica su Hiroshima; bene: se nel ’45 fosse esistito Dio – tesi plausibile visto che lo si suppone eterno – avrebbe fatto un piccolo sforzo, qualcosa alla portata persino di Superman, e avrebbe allungato la manina per raccogliere la bomba prima che toccasse il suolo. E se poi fosse stato quel terribile e vendicativo Dio dell’Antico Testamento, l’avrebbe addirittura restituita al mittente, l’atomica. O meglio ancora al mandante (…)

Il Chirurgo Unico

D’ESTATE vengono al pettine i primi effetti delle chirurgie primaverili. I chirurghi estetici operano ormai col rito abbreviato e hanno polverizzato i tempi di degenza: è pertanto frequente che una donna trattata al mattino, al pomeriggio non venga più riconosciuta dal compagno: questo non tanto perché i suoi connotati siano migliorati, ma perché è facile che lui la confonda con le altre beneficiarie della stessa pratica – al punto che molti stanno cominciando ad azzardare la teoria della monogenesi di tutte le plastiche: la sconcertante congettura che dietro le quinte operi Il Chirurgo Unico.
Alla chirurgia estetica non si sottraggono nemmeno i maschi: si narra che a un certo B. sia capitato di trascorrere una settimana alle Maldive con una tale M., che però non era affatto sua moglie, ma era diventata identica a costei; mentre lui (verosimilmente anch’egli paziente de Il Chirurgo Unico) era diventato esattamente uguale al vero marito di lei.
Inoltre la cronaca segnala commoventi casi di cani dati per dispersi che — fatte centinaia di chilometri per tornare a casa — cominciano a latrare davanti all’atrio condominiale, sconcertati nel dover prendere atto che il caseggiato è una Paperopoli di padrone tutte uguali.
In un’epoca in cui si soffre già per l’omologazione delle idee, d’estate si viene ad aggiungere anche l’omologazione dei volti. Senza uno straccio di disputa bio-etica preliminare, la clonazione umana è già “operativa”, e alimenta già le prime confusioni.

(Stefano Bonaga e Marco Cavani) La Repubblica, agosto 2004

orrori

eutanasia della pubblicità

MIRIADI di extracomunitari vengono sguinzagliati ogni giorno in ogni quar­tiere per riempire le cassette della posta. Uno, cento, mille volantini della stessa ditta nella stessa buca. L’importante è esaurirne la dota­zione. Vi è mai capitato di tornare dalle vacanze e trovare la cassetta intasata da imprese immobiliari, ipermercati, idrauli­ci da asporto, pizzerie etniche, factotum?

Per affrontare il problema, alcuni intraprendenti condòmini si sono attrezzati affiggendo sul portone cartelli che invitano a non depositare reclâmes all’interno. Ma altri hanno adottato un’al­ternativa inquietante: hanno scelto di destinare una cassetta esterna alla pubblicità condomi­niale.

Chissà se nelle assemblee dei palazzi che hanno adottato tale stratagemma viene nominato un guardiano-custode col compito di sorvegliare le chiavi del manufatto a nome del condo­minio? E chissà se costui ne spartisce periodica­mente il contenuto tra gli inquilini – o magari assegna una copia della chiave a ciascun residente, in modo da permettergli di di­sporre a piacimento della sostanza racchiusa nell’augusto forziere?

In realtà le cassette esterne della pubblicità sono un ipocrita “pre-rusco”. Un piccolo inferno più dolce. Un modo per differire di qualche giorno le fiamme dell’immondezzaio. Esse sono il compassionevole luogo terminale d’una saga cartacea che non ha più nulla da temere perché non ha più nulla da sperare. La cassetta della pubblicità esterna ha infatti il privilegio di non esse­re nulla: esclusa dagli umani, ne­gletta dai condòmini, ignorata dai passanti, essa è una porzione d’aldilà che è già qui: una zona franca che esiste senza esserci, senza che nessuno afferri il suo ufficio. Tanto var­rebbe istituire dei veri e propri bidoni della spazzatura con sopra scritto: ‘pubblicità’.

(Stefano Bonaga e Marco Cavani); La Repubblica, agosto 2004

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