Rincaso e tolgo subito corrente al quadro elettrico, ansioso di appurare se i gemiti che promanano dal mio talamo vengano per caso dall’apparecchio televisivo, o se si tratti invece di mia moglie.
Ma i guaiti persistono anche al buio…
Dovete sapere che soffro di un male cardiaco incurabile. Mi è stato assicurato da una ventina di dottori – agenti indipendentemente l’uno dall’altro – che la mia vita durerà poco.
Anche il lettore più cinico dovrebbe riconoscere il mio stato d’infelicità, qui a Pozzuoli.
Vi confesso che non ho mai provato vero amore (ma vera gelosia sì) per l’instabile donnetta che mi sta tradendo al piano di sopra. A suo tempo la scelsi e la corteggiai con calcolata cura soltanto per prepararla al ruolo che doveva svolgere, il succo del quale – come le avevo rivelato poco dopo il matrimonio – era rendersi complice del mio suicidio, operazione che – per una sorta di codarda inettitudine – non sarei mai riuscito a compiere da solo.
Così le cose furono predisposte e la data fissata per il giorno del mio quarantatreesimo compleanno.
Oggi, il giorno fatidico, sono rincasato prima del solito per l’ingenua trovata di celebrare trapasso e ricorrenza con torta e candeline.
Salgo le scale, deciso a dirgliene due a quella sgualdrina.
Busso.
Mi apre un bellimbusto che indossa la mia veste da camera.
Opto per il sarcasmo:
“Posso offrirvi una piccola fetta di torta prima di andarmene?
“
Nessuna risposta.
“Ho chiesto se posso offrirvi un piccolo rinfresco, prima di andarmene…”
Il bellimbusto non aveva mai sentito niente di più assurdo: il cornuto che ci offre il rinfresco prima di andare! Il rinfresco prima di andare!
E dalla sua espressione capisco che pensa che ero semmai io ad aver avuto bisogno d’un goccetto – ma magari prima di rincasare.
Mia moglie nota che non ho in mano solo la torta, ma nell’oscurità non riesce a distinguere altro.
“Cos’hai lì?” Mi chiede.
“La pistola e le pallottole … Prima le signore!”
E faccio fuoco.
I due condividono una breve agonia contrattiva, simili a un par di marionette comandate dallo stesso filo.
Io mangio un pezzo di torta e al posto del caffè m’infilo in bocca la pistola.
Premo il grilletto, ma ne esce un sordo clic.
Un’espressione corrugata mi si diffonde sopra la cianosi.
Quella sgualdrina, anche con un proiettile in corpo, anche rantolando, ricomincia a baciare il suo ganzo proprio lì sotto ai miei occhi…
La gelosia mi stava fermando il cuore… Il mio cuore si ferma. Riprende a battere, si ferma di nuovo, si rimette in moto… Le sparo un altro colpo.
Avevamo deciso che io morissi d’infarto, e mia moglie doveva prepararmi qualcosa che me lo facesse venire, l’infarto, e aveva optato per quella messinscena perché sapeva che soffrivo di gelosia a livelli patologici.
Ora sono in galera. Il mio cuore è sempre più malato. Qui ho molto tempo per pensare, e un terribile dubbio s’è insinuato in me e non mi lascia più: mi sto convincendo sempre più che
quella notte sia stata mia moglie a scegliere me come complice del suo suicidio.
Forse a suo tempo aveva risposto ai miei corteggiamenti con calcolata cura solo per prepararmi al ruolo che avrei dovuto
svolgere nella sua vita: il succo del quale era rendermi complice del suo suicidio, operazione che – per una sorta di
codarda inettitudine – non sarebbe mai riuscita a compiere da sola.
