Estratto dal libro

Marco Cavani
La Posta del Cuore
(Una storia vera)
con prefazione di Natalia Aspesi
La Posta del Cuore
di Marco Cavani
ISBN 978-88-04-62155-3
© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione aprile 2012
Indice
7 Prefazione
di Natalia Aspesi
LA POSTA DEL CUORE
17 A rianna
38 S parliamo di altri
68 I primi amori
102 Natalia diventa diffidente
124 Il penultimo amore
161 Che fine ha fatto Maurizio Marchesini?
163 Quattro storie inventate
171 Appendice
Quattro lettere mai pubblicate
179 Disclaimer
Prefazione
Marco da Bologna, Arianna da Roma, Gianfranco da Faenza,
Manuele da Pontelagoscuro, Mara da Padova hanno scritto
a “Questioni di cuore” le loro ambasce amorose, come tanti
altri: lettere particolarmente ben scritte, divertenti malgrado
i drammi raccontati (i soliti; tradimenti, stalking, illusioni,
inseguimenti, belle e crudeli, avari e noiosi ecc.). Impossibile
non pubblicarle, con la loro grazia ironica e drammatica
illuminavano la rubrica del Venerdì. Mi pareva, attraverso
anche una sola lettera, di arrivare a conoscere Marco
e Arianna, Mara e Gianfranco e tutti gli altri. Ma ancora
oggi non conosco di persona quel Marco Cavani che da
solo si è firmato Marco e Arianna, Mara e Gianfranco e poi
anche Andrea, Luca, Emanuele eccetera, regalandomi una
folla di personaggi apparentemente inventati ma in realtà
veri: amici messi a nudo, e soprattutto lui stesso, Marco, in
vari stadi della sua turbolenta vita sentimentale, e le donne
che ne entravano e uscivano a frotte, di cui si inventava
per me sentimenti e pensieri e reazioni.
Di tutto il mare di lettere che questo (pare) affascinante
architetto di ottima famiglia, ultracinquantenne, bolognese,
io, ignara e soccorritrice, ne ho pubblicato, dice, 36. Addirittura
una volta (ricorda ancora la data fatidica, il 5 gennaio
2007), le tre solite lettere di “Questioni di cuore” erano

tutte sue: un record di cui giustamente trae un gran vanto
a mio imperituro smacco.
Ho saputo della gloriosa trappola in cui ero caduta, da
un suo amico professore universitario, pure lui bolognese,
pure lui affascinante anzi super, anche lui imbrigliato
in amori celebri e stravaganti, con donne che dire belle è
poco, l’ultima moglie più giovane di decenni, come è giusto
per uomini “vip di seconda fascia”, (definizione di Cavani)
il cui motto è “a corteggiare una bella o una brutta si fa
la stessa fatica, tanto vale mirare in alto”.
Non so se il gesto dell’amico cattedratico sia stato una
vendetta perché Cavani aveva raccontato tutta la sua storia
(ampliata in questo libro) in una lettera così travolgente che
non ho potuto non pubblicare. Protagonista della missiva
scritta dal “docente universitario” che si firmava “Catullo
di Roma”, una semiologa magiara di splendore raro anche
se nello stile tivù ma che, secondo amici maligni, era invece
una fantasiosa pornostar, prova lampante i dvd estremi
reperibili nelle edicole più aggiornate; e qui pare che la mia
risposta in cui elogiavo la sagace scelta erotica del finto scrivente,
abbia del tutto entusiasmato il delatore Cavani che
la definì certo esagerando “un capolavoro”.
Tutto è cominciato nel 2001, quando il seduttore Cavani,
bidonato dall’ennesima sedotta, avvertì la necessità di
confidare la sua spettacolare disperazione a una delle tante
sconosciute dilettanti del cuore (ce ne sono molte, anche
maschi, su carta e su web, senza contare le maghe) scegliendo
la volonterosa apprendista del ramo che si ingegnava
di dirimere gli amori sul Venerdì di “Repubblica”. Addetta
alla sconfortante bisogna, la buona signora avrebbe magari
condiviso il di lui lutto amoroso senza umiliarlo, come certo
avrebbero fatto i suoi amici, fraternamente legati tra loro
anche dalla reciproca crudeltà. La lettera inviata da Marco
di Bologna arrivò nel solito mucchio, la lessi come faccio
con tutte, anche quelle scritte a mano e indecifrabili; apprezzai,
pubblicai, risposi, e la mia fiduciosa comprensione, dice
Cavani, lo “stregò”, segnando il suo destino: che fu quello
di cominciare una forsennata corrispondenza con Natalia
Aspesi che, pure lei stregata dai favolosi eventi sentimentali
raccontati con tanta grazia linguistica sorretta da irresistibili
lampi di follia (che sempre accompagnano i grandi
amori) fu del tutto sedotta dai più deliziosi inganni (altra
necessaria trappola dell’amore) mai perpetrati contro di lei.
Certo ogni tanto avevo qualche dubbio sull’autenticità
di una lettera inviata dal Cavani sotto varie identità, perché
c’è un limite anche alle complicazioni amorose; ma è
capitato che di questi documenti che mi lasciavano in dubbio
e che poi si sono rivelati invenzione cavanica, ne pubblicassi
qualcuno, perché comunque esprimevano la forza
di un’emozione o anche di una umana stravaganza: e comunque
lettere sempre scritte benissimo, come un racconto
breve d’autore.
Durato, pare, dieci anni, il gioco per me prezioso in cui
mi ero lasciata intrappolare, fu purtroppo smascherato
dall’esimio amico professore di scienze umanistiche durante
una Mostra del cinema di Venezia, che mi raccontò tutto.
Da allora, dice Cavani, e forse è vero, non mi ha più scritto
sotto alcun nome: non penso solo perché il nostro legame
di penna si era spezzato, né per il supposto tradimento
dell’amico tradito, ma anche perché pure lui è invecchiato
come i suoi amici, ha meno sogni, meno desideri e meno
intemperanze e soprattutto, mi dicono, sta con una donna
apparentemente fissa su cui si è adagiato con pensosa fedeltà.
Sarà tutto vero? Il silenzio, l’accasamento, il rifiuto
del gioco? Sarebbe molto triste, e per questo non ci credo:
nel mare di lettere che continuo a ricevere, tristi o incattivite,
desolate o desideranti, arrabbiate o rassegnate, quasi
tutte rabbuiate dalla serietà e dalla saggezza, mi mancano
quelle di produzione Cavani, illuminate dalla sregolatezza,
lettere inventate e perciò massimamente sincere, libere,
autentiche. Per il piacere mio e dei lettori, mi auguro
che il vecchio Cavani si risvegli, esca dalla vita comoda o
per lo meno cambi amici, se ne trovi di nuovi pieni di storie
d’amore, da esporre al pubblico ludibrio della posta del
cuore. Mi viene anche il dubbio, anzi la speranza, che non
sia l’architetto bolognese il solo che si sia divertito a prendermi
rispettosamente in giro, a usarmi come uno specchio
del suo modo di vivere non del tutto ordinato e per questo
mai noioso, a pretendere un interlocutore di tutto riposo in
quanto sconosciuto, che mai potrà usare le sue confidenze
e confessioni per eventuali rivalse, una specie di cassaforte
sbrecciata, che non conserverà memoria dei suoi errori
e delle sue disperazioni o cattiverie, dimenticando tutte le
rivelazioni fatte in un momento di debolezza e poi rinnegate,
cancellate dalla vita.
L’epistolario Cavani-Aspesi è servito all’autore delle lettere
a ripensare a se stesso e a scrivere, forse senza volerlo,
la sua autobiografia; che è quella di un uomo non ancora
vecchio, che ha molto vissuto e teme di non averne più
voglia: amori su amori, mogli, figli, droghe, fughe, viaggi,
denaro, penuria, imbrogli, illegalità, amicizia e sempre
questo filo fragile che chissà perché lo ha legato per anni a
“Questioni di cuore”. A una vecchia ignota signora come
alle giovani bellissime donne che lo confondevano, lo incendiavano,
gli rendevano meravigliosa e grama l’esistenza:
un po’ per scherzo, un po’ per il piacere dell’inganno,
un po’, forse, per solitudine. Infatti niente dà più il senso
pauroso di trovarsi in un deserto, che vivere in una foresta,
nel suo caso di donne.
Rileggendo adesso le lettere riunite con le relative risposte,
e le riflessioni e i ricordi e i rimorsi e le nostalgie e quella
specie di cimitero dei tanti amori che finisce con l’essere
questa raccolta, si prova anche la sensazione che non
si tratti solo dell’autobiografia accidentale dell’architetto
Marco Cavani. Ma piuttosto quella di una specie umana
in via di estinzione o addirittura già scomparsa: quella di
uomini, che non a caso vivono a Bologna, che privilegiano
l’amicizia virile e gli incontri al bar di riferimento: intelligenti,
creativi, frequentatori di librerie, spesso molto colti,
magari ogni tanto autori di poesie, canzoni e romanzi e
persino saggi, amici ovviamente del compianto Lucio Dal11
la: disponibili a vivere ogni tipo di avventura con denaro
limitato, poco propensi a perdere il loro tempo per lavorare
e far carriera, geniali nell’escogitare piccoli inganni innocenti
per sopravvivere beatamente, con tutta la giornata
libera per incontrare, corteggiare, innamorarsi, far innamorare,
vivere passioni travolgenti, tradire, abbandonare, farsi
cornificare e abbandonare da quante più donne possibile:
naturalmente giovani, belle, ingannevoli, furbe, sensuali,
intelligenti, teatrali, dolcissime, bugiarde e perennemente
in fuga. Ragazze che sanno rendere l’amore burrascoso, inquieto,
inafferrabile e quindi meraviglioso.
Credo che tante signore, soprattutto se maritate con
l’uomo che credevano dei loro sogni, provino nostalgia
per questo tipo di maschio antico, premoderno, felliniano,
un po’ mascalzone, o almeno libertino, resuscitato con tocco
rustico da Pupi Avati. Un uomo che anche solo per un
po’ ha la capacità di rendere una parte della vita fracassona
e splendente come un fuoco d’artificio, degna di essere
vissuta: per poi spegnersi, certo, nel buio della ovvietà
quotidiana e della pace dei sentimenti. Tanto poi anche quel
lucente mascalzoncello, dopo tanto girovagare di cuore in
cuore, di letto in letto, di corna in corna, si sistema e diventa
come tutti gli altri, più o meno una pizza.
Natalia Aspesi

La Posta del Cuore
A Meri: tutto
Lettere, lettere! Ogni giorno costruire
un regno di fantasia!
lady eva bolaski (franca valeri),
nel film Piccola posta di Steno

15
Leggendo una rubrica di “Posta del cuore”, scagli la prima
pietra chi non si è mai posto la seguente domanda: “Sarà
tutta vera questa corrispondenza?”.
Io non so dare una risposta precisa a questo interrogativo.
Posso però dirvi con certezza che una delle più seguite
rubriche italiane di posta sentimentale contiene – sia pure
in dosi omeopatiche – farina del mio sacco.
L’autodenuncia che sto per fare richiede una forte dose
di coraggio, perché, oltre che coinvolgere me, chiama in
causa anche molte persone che mi sono care.
Purtroppo mi trovo su una pagina di carta e non posso
avvalermi dell’alone o del cappuccio che di solito si mette
in tv sul volto di chi non vuol farsi riconoscere.
Per la stessa ragione non credo nemmeno sia possibile
farmi mascherare la voce.
Ho preso in considerazione anche l’idea di ricorrere a
uno pseudonimo, ma poi mi sono detto che era giusto assumermi
le mie responsabilità.
Insomma, ormai ho deciso di vuotare il sacco, e lo vuoterò.
Ecco, dunque, la mia confessione.
Sono un architetto, mi chiamo Marco Cavani, e per dieci
anni ho scritto a “Questioni di cuore”, la rubrica tenuta da
16
Natalia Aspesi sul supplemento del venerdì del quotidiano
“la Repubblica”.
Finora mi ha pubblicato trentasei lettere. Mi firmo con
vari nomi. Una volta ho fatto addirittura saltare il banco: era
il 5 gennaio 2007 e l’intera rassegna (tutte e tre le lettere)
era stata militarmente occupata dal frutto della mia tastiera.
Ma com’è cominciato tutto questo?
17
Ho spesso immaginato i mille modi in cui sarei potuto morire:
di fame, di sete, di malattia, annegato, suicida, sbranato
da un rottweiler, avvelenato, ucciso in una colluttazione,
in guerra o in combattimento (anche se la guerra non è il
mio forte e non è ancora del tutto praticata in Italia), ma
quando esalai l’ultimo respiro, stavo morendo bollito nella
pentola Lagostina dell’Amore, e i salici e i cipressi, per
farmi compagnia, stavano piegando anch’essi i loro funerei
bracci sotto una brusca mitragliata di föhn, mentre torvi
nembi, torvi nembi neri, gravavano sul maledetto cielo
e sul maledetto, maledetto, mille volte maledetto California
Park Hotel di Forte dei Marmi.
Vi racconto come giunsi a cottura.
Siamo nel settembre 1998. Il mio amico Erio Dari sta tenendo
banco, come sempre, in un bar di Bologna, decorato
con mille dragoni cinesi alle pareti, e ha appena digitato
il mio numero di telefono.
Erio mi passa una ragazza dal marcato accento veneto:
«… Ciao, mi hanno detto che tu forse puoi aiutarmi: mi
chiamo Arianna e mi sto annoiando da morire con questi
vecchi… Per favore, dài, vieni qui a salvarmi…».
«… Dimmi dove sei che arrivo subito…» rispondo io, con
una disinvoltura che rasenta la sfacciataggine.
Arianna
18
(Del resto come potevo immaginare che in quelle poche
parole serpeggiasse un decennio di disgrazie?)
Ero anch’io un po’ in là con gli anni, e non avevo idea di
chi fosse Arianna, ma mi precipitai lo stesso al bar, e qualche
tempo dopo, con la complicità del Dari, soprannominato
“Fred Astaire”, finì che mi fidanzai con quella ragazza,
la cui voce mi aveva evidentemente stregato.
All’epoca avevo un gran bisogno di rimarginare le ferite
lacerocontuse procuratemi da una sosia di Penelope Cruz,
una calabrese ventenne, anoressica e crudele, che mi aveva
appena spappolato il cuore e le coronarie.
Costrinsi quindi me stesso a bere il calice del “chiodo
scaccia chiodo”, così come suggerivano i pochi amici rimasti
tali nonostante la molestia che diffondevo dalla pestilenziale
e logorroica condizione che attanaglia ogni innamorato
respinto.
Arianna era una che se ti guarda negli occhi ti pianta un
forcone nei ventricoli.
Aveva una voce piena come il bronzo, e in qualunque posto
andasse tingeva i dintorni di un’armonia che ne faceva
risaltare ancor di più la già sontuosa bellezza.
Per tagliar corto, Arianna era una gran figa.
Molto al di sopra dello standard che l’autostima potesse
riservarmi nel più roseo dei sogni.
Credo di avere fiuto per le donne.
Nel senso che in genere mi basta passare accanto a una
di loro perché il naso mi dica subito se i pensieri sfornati
dal suo cervello sono buoni o no, e – gastronomicamente
parlando – Arianna sprigionava profumo di tartufo d’Alba.
Fred Astaire aveva già in piedi una storia con lei e io mi
ero messo in stand-by, tanto sapevo che, non appena se ne
fosse stufato, me l’avrebbe misericordiosamente servita sul
classico vassoio d’argento.
Quando si avvicinò il momento, infatti, Erio – che è un
uomo generoso (e nello stesso tempo competitivo) – per
rendere ufficiale il passaggio di consegne e creare l’atmosfera
giusta, portò me e Arianna al night, e poi a casa sua;
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e là, su un letto pieno di specchi e di pellicce – sovrastato
dalla litografia a colori di un gatto con un sombrero ricamato
in testa – perorò la mozione “triangolo” e caldeggiò
l’iniziativa “orgia”.
Erio in quel periodo doveva avere qualche noia andrologica
e pretese il buio più assoluto, penso per contrabbandare
l’uso d’una protesi fallica, ma la delicatezza dei miei
modi sbaragliò la sua concorrenza sleale e aprì una piccola
breccia nel cuore della vicentina, malgrado la mia partecipazione
al terzetto fosse stata poco più che platonica,
annebbiato com’ero dall’emozione di trovarmi a sei occhi
con Venere in persona.
Dopo aver vinto – confessandogliela – la mia timidezza,
portai Arianna a cena fuori e al cinema.
Al ristorante sorrideva, la bimba, graziosa, entusiasta, e
io ero incantato dal suo viso, luminoso e splendente come
marzo che timbra il cartellino in un’aiuola.
Al momento del dessert avevo rispolverato un piccolo
aneddoto da raccontarle, e lei lo beveva, deliziata, come se
io fossi il centro e il clou dell’Universo.
Al cinema, poi, avevo messo la mia mano sopra la sua,
senza che si ribellasse all’idea.
La invitai a cena una seconda volta. A casa mia.
Mentre saliva le scale, non posava lo sguardo sui gradini
o sul corrimano: guardava me, la gattina!
E anch’io, rapito, ne ammiravo dall’alto la perfezione,
pregustando la scoperta progressiva delle affinità.
“Chissà che nostalgia avrò di questa ragazza, il giorno
che mi pianterà in asso anche lei…” cominciava già a mugugnare,
in sottofondo, l’emisfero disfattista del mio cervello.
“Tranquillo: lei non ti sbranerà il cuore come ha fatto l’altra!”
replicava la contraerea.
Devastato e traumatizzato dalla recente “Caporetto calabrese”,
caddi presto in preda a una fissazione: quella di
voler conservare a tutti i costi, e il più a lungo possibile, il
nuovo angelo che gli astri mi stavano gettando tra le braccia.
Arianna mi aveva confessato che non si era mai innamo20
rata in vita sua e io volevo essere il primo a “cavare il sangue
dalla rapa”. Avrei fatto qualunque cosa purché mi concedesse
la grazia di starle sempre vicino. Volevo scavarmi
una nicchia legittima, stabile e duratura nel suo cuore. Volevo
sposarla, conservarla in una teca. Mi sarebbe piaciuto
chiamare a raccolta i quattro punti cardinali e farli convergere

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